Io, ammalato di Sla a 48 anni ho voglia di lottare
La vita, a volte, gioca brutti scherzi. Mette sulla strada degli ostacoli, te li ritrovi davanti, all’improvviso. Sei costretto a frenare bruscamente, fino a fermarti. Poi, ti guardi intorno, cerchi una via di fuga per ripartire, per correre più veloce, contro il tempo, per bruciare le tappe dell’esistenza che non hai ancora raggiunto e che, presto o tardi, la malattia potrebbe toglierti per sempre. Il matrimonio, un viaggio, sistemare le carte per non lasciare alla famiglia incombenze burocratiche, il mutuo da pagare.
Nel caso di Mauro Benetton, 48 anni di Ponzano, l’ostacolo incrociato lungo la via della vita si chiama “malattia dei motoneuroni” una presunta Sla.
A soffrire di Sclerosi Laterale Amiotrofica, nel Trevigiano sono 88 persone. Una patologia subdola, che attacca in maniera diversa, un formicolio alla gamba, oppure al braccio, un abbassamento di voce. A poco a poco uccide le cellule nervose che fanno muovere i muscoli, la mente resta vigile mentre il corpo diventa una prigione. Non c’entra l’età, molto spesso, la Sla colpisce i giovani.
Il caso di Mauro, che ha affidato il suo pensiero a una lettera indirizzata al nostro giornale, ne è un esempio. I sintomi sono cominciati a maggio, all’improvviso, prima di allora tutto era normale. La routine di un padre di famiglia, i sogni concepiti insieme alla compagna e il lavoro come operatore socio sanitario alla Casa dei Gelsi, impegnato ad assistere i malati terminali.
Mauro, perchè ha deciso di raccontarsi pubblicamente?
«La diagnosi della mia malattia è arrivata pochi giorni fa, il 17 ottobre, come una sentenza, ma ho tanta fame di vita. Sì, ho tanta voglia di vivere e desidero comunicarlo al mondo, non per presunzione ma perché sento il bisogno di farlo e, in tutto questo, la speranza mi dà la forza di vincere il dolore. Voglio combattere fino alla fine per chi mi vuole bene ma, soprattutto, per me».
Come si è accorto che qualcosa non andava?
«Otto mesi fa. Inizialmente non riuscivo ad appoggiare bene il piede sinistro, lo sentivo pensate e lo trascinavo. Non ci ho dato importanza, credevo fosse un disturbo momentaneo. Ma non fu così, in breve le cose peggiorarono. Non comandavo più la gamba e infine mi sono trovato con il braccio sinistro bloccato. Lì all’Hospice, dove lavoro da nove anni, mi era diventato impossibile sollevare persino una caraffa d’acqua, mezzo chilo o poco più».
Cosa ha fatto?
«Mi sono consultato col medico e sono scattati i controlli, una lunga lista di esami: visita neurologica, risonanza magnetica cerebrale e cervicale, quindi il ricovero al Ca’ Foncello. Ancora analisi e l’arrivo della diagnosi: “Probabile malattia dei motoneuroni”, cioè Sla. In quell’istante, di fronte a quel macigno appena caduto sulla mia strada, tutto si è fermato».
Uno stop durato molto poco, perché lei ha deciso di ingranare le marce. Come ha reagito?
«Ora la mia vita è accelerata. La malattia non è prevedibile al momento faccio fatica a salire le scale e a muovermi. Da solo non riesco a gestire le bambine, ma sto vedendo di fare velocemente le cose prima che sia troppo tardi, prima di non riuscire ad affrontarle più».
Per esempio, quali progetti vuole realizzare?
«Voglio sposarmi, la cosa era già in programma ma mi sbrigherò. Qualche mese fa sono andato a salutare i genitori di mia moglie in Brasile. Ho venduto la mountain bike che era la mia grande passione. Sto investendo le mie energie per sistemare tutto, per non lasciare incombenze economiche ai miei affetti».
Dopo aver saputo di una malattia così grave cos’è cambiato in lei e in chi le sta vicino?
«Sicuramente la scaletta delle priorità si è modificata. Sto reagendo, ho iniziato a prendere dei farmaci e a fare fisioterapia. Insieme alla mia famiglia stiamo cercando la forza di andare avanti. Non ho paura di morire, ma di lasciare da solo chi mi ama».
Il lavoro all’Hospice l’ha fatta entrare più volte a contatto col dolore, con la sofferenza e con il delicato tema del fine vita. Qual è la sua opinione al riguardo?
«Prima facevo manufatti in cemento armato, ho scelto di diventare operatore socio sanitario all’Hospice perché l’idea di aiutare gli altri mi faceva stare bene. Quell’impiego mi ha insegnato molto. Ho imparato che la volontà della persona è sacrosanta e che le si deve portare il massimo rispetto».
Diritto, scienza o coscienza, chi deve avere l’ultima parola di fronte alla sofferenza?
«La legge deve riconoscere un limite all’invasività delle cure. Voglio poter decidere di me stesso. L’idea che ho in questo istante è che non mi sottoporrò alla tracheotomia o alla peg (alimentazione artificiale). Voglio sentirmi libero di scegliere se sarà necessario. A volte bisogna sapere non andare oltre. Anche nella sofferenza va sempre conservata e tutelata in ogni modo la dignità del malato. A un certo punto, se la persona lo chiede, ci si deve fermare».